Molti di noi sono cresciuti credendo nella “profezia”: sii bravo nello studio, prendi una laurea “seria” e poi trova un’azienda che ti assuma per sempre. Ma questo valeva ai tempi dell’economia industriale.
Oggi, invece, nell’economia della conoscenza non c’è più questo atteggiamento “esclusivo” verso il proprio lavoro, e la carriera è solo uno dei tanti progetti che una persona ha. Vuoi per la maggiore flessibilità richiesta, vuoi per un’attitudine alla fedeltà meno forte, non c’è più questo legame forte, totalizzante, tra l’individuo e il proprio datore di lavoro, e ciascuno si sente “appartenere” a più dimensioni e spesso in un percorso di business coaching o di counseling emerge con forza questa pluralità.
Se per decenni la centralità del lavoro è stata un punto fisso, oggi le nuove generazioni sono più “multicentriche” e sono attratte da poli di interesse diversi.
Questo lo vediamo anche nel mondo del lavoro, spaccato in due tra chi ha stabilità e chi scivola da una precarietà e l’altra.
Ma cos’è che conta di più oggi e conterà sempre più nei prossimi cinquant’anni: “avere” un lavoro il più sicuro possibile o “essere” il miglior professionista possibile?
Spesso confondiamo queste due dimensioni, l’avere e l’essere, nonostante siano profondamente diverse.
Una persona può avere diverse cose (es. macchine potenti), ma questo non vuol dire automaticamente “essere” una persona migliore. Perché è proprio questo ciò che accade: le persone spesso credono di essere qualcuno per le cose che hanno, dimenticando che l’essere è sempre più importante dell’avere.
Perché l’essere è la sostanza che resta alla fine e che nessuno ci può può togliere: ad esempio posso perdere tutte le foto digitali della mia vita se l’hard disk si brucia, ma quei ricordi che sono parte del mio essere mi resteranno per sempre nella memoria.
Sì Luigi, ma cosa centra questo con il lavoro? Centra molto, perché devi imparare a chiederti cosa ti da il tuo lavoro in termini di avere e di essere.
Quanti giovani, per esempio, dopo studi brillanti accettano come primo impiego un lavoro di data entry o come call center pagato non male in un’azienda magari abbastanza prestigiosa, accettando di percepire uno stipendio e status soddisfacenti anche se non stanno più imparando un granchè, nonostante alla loro età dovrebbero avere fame di apprendimento? In questo caso si punta ad “avere” uno stipendio sicuro, perché puoi giurarci che di questo tipo di lavori le aziende ne avrenno bisogno ancora a lungo, ma tu non puoi permetterti di bruciare il tuo tempo per farli a lungo! Quanti declinerebbero questa offerta di lavoro, per accettare una collaborazione più insicura, magari con una startup, avendo meno riconoscimento sociale ma potendo imparare ad una velocità doppia-tripla, e quindi investendo proprio…sull’essere un professionista migliore?
Il punto è proprio questo: se nel breve periodo può sembrarti migliore un posto sicuro dove crogiolarti, nell’economia della conoscenza l’unica strategia di successo che puoi attuare nel lungo periodo è quella basata sulla crescita, che mette al centro l’obiettivio di essere un professionista sempre migliore.
Il posto di lavoro, nell’economia della conoscenza di oggi, per te deve essere una palestra per:
- metterti nelle condizioni di svolgere un lavoro dove puoi usare le tue competenze o acquisirne di nuove
- che ti fornisce occasioni e reddito sufficiente per formati e crescere ancora di più.
Solo così aumenterai la tua “employability”, il valore che puoi portare e il tuo grado di realizzazione.
Anche le aziende migliori se ne stanno accorgendo e puntano sempre più sulla formazione come strumenti per trattenene i talenti. Ma quando fai un colloquio, quante volte chiedi “che piano formativo avete qui dentro?” “se inizio questo percorso, quali opportunità di apprendimento mi mettere a disposizione?” (l’essere!). Invece, chiediamo più spesso “qual è lo stipendio”, oppure “che ruolo avrò” (“avere”!).
Un percorso di counseling o di coaching, può aiutarti a definire al meglio un progetto professionale che possa realizzarti tenendo conto di questi aspetti.
Ecco, insomma, cosa possiamo rispondere alla mamma quando le diciamo che abbiamo rinunciato al posto fisso presso la Motorizzazione, per iniziare a lavorare in una realtà più sfidante.
E ricordati le parole di Mirna Loy, un’attrice statunitense: “La vita non è un avere e un prendere, ma un essere e un diventare”.